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La prima immagine che ti viene in mente atterrando a Quito è la H di Helicopter. Quella grande H posta sopra ai grattacieli dove atterrano gli elicotteri. L’aereo scende talmente vicino alle case che cerchi di scorgere una A di Airplane. Dato che la pista sembra non esserci, si atterrerà sopra a qualche grattacielo. Non c’è, ma in qualche modo si atterra lo stesso.
Scendi dall’aereo e scorgi un sorriso amico tra la folla, il sorriso di don Giovanni, l’amico che da tempo non vedevi. La cosa bella dell´amicizia è che quando ti ritrovi è come se nessun tempo fosse mai passato.
Le vicende dei missionari padovani in Ecuador le abbiamo lette grazie alle mail e al blog, ma quello che si vede e si vive qui bisogna viverlo e sentirlo, perché … come dire … non puoi sentire il gusto della Nutella se te la raccontano o ti mostrano una foto.
La città alle 18.30 e già immersa nel buio, la prima impressione è il caos, il disordine, gente ai bordi della strada che vende frutta, case di un piano con ferri che escono perché si costruirà il secondo quando si potrà. Che è pur sempre un segno di speranza, a pensarci.
Quito ti attende con tante luci a illuminare la notte, la canonica è un insieme di abbracci e sorrisi nel ritrovare tanti amici, volti cari e conosciuti … don Giovanni, don Saverio, don Mauro. E volti nuovi che diventano cari … don Nicola, don Giampaolo, Luigina.
L’apertura delle valigie è una festa, è bello vedere come faccia piacere ricevere cose da chi è in Italia. Siamo accolti dalla festa dell’ultimo dell’anno coi ragazzi, qui si brucia il pupazzo dell’anno vecchio, l’Año Viejo. Migliaia di fuochi d’artificio, migliaia di pupazzi che bruciano: Quito si stende lungo tutta la valle sotto di noi e lo spettacolo è straordinario.
A scrivere queste righe scorrono davanti agli occhi migliaia di immagini e fa’ strano pensare che tra poco si riparte e si torna a casa, che ci si saluterà ancora una volta. Tanti chilometri percorsi, decine di volti, milioni di alberi, una natura spaventosa nella sua bellezza che ti riempie lo sguardo mentre percorri in auto l’Ecuador.
In breve tempo molte sono state le esperienze e le facce del paese che Giovanni ci ha portato a conoscere. Salinas è una comunità a 3600 metri, un esempio di come un popolo può uscire dalla povertà, creare un´economia propria. Tutto è organizzato in cooperative, l´utile viene reinvestito nelle migliorie del paese. C’è un caseificio, la fabbrica del cioccolato, la filatura della lana, il maglificio dotato di stanza per tenere i bambini mentre le mamme lavorano creando maglioni, la fabbrica di oli essenziali. Le persone arrivano dalle loro case disperse fuori il paesello e portano il latte munto quando da noi si è nel pieno dei sogni, portano alla cooperativa i funghi in pesanti ceste raccolte nei boschi. Ogni giorno così. Per arrivare a Salinas percorri una strada lunghissima dove si incontra poca gente, che sta salendo a piedi. A piedi. È bello e bucolico pensare alla camminata in montagna … ma qui per tanta gente non è propriamente una scelta bucolica. Per lo più, se si cammina, è perché si sta portando del latte alla centrale, con un bambino sulle spalle e il lama che ti porta il latte. Se sei fortunata. Altrimenti rimane il peso senza l´appoggio del lama. Bellissimo il lama, questo bisogna dirlo.
Per terra non sempre c’è asfalto ma terra, spesso umida. Salinas ti accoglie con un clima freddo che si mescola all’umidità e, visitandola, ti chiedi cosa ci sia di così straordinario per chi ci vive. Ma io sono di un altro mondo. Io il lunedì mattina arrivo in ufficio ed è freddo e tutti ci lamentiamo perché non si riesce a lavorare col freddo. Caccio il pensiero.
Guardo i volti delle donne, segnati dal freddo, le loro mani sporche di terra, la loro spalle avvolte in scialli che aiutano a trasportare contenitori o bambini. Le vedo arrivare al caseificio e svuotare il latte, gesti meccanici che da anni si ripetono uguali a se stessi. Un bambino bellissimo e sporco aspetta la mamma che svuota il latte, ma capisci presto che il concetto di pulito e sporco diventa molto relativo qui. Come fai a non sporcarti se le strade sono terra, i pavimenti delle case sono terra, l´acqua calda è un lusso. Ti senti turista, ti senti lontano. Bisogna camminare nelle scarpe di qualcuno per capire se sono comode o no. Ti sembra di non aver neanche lontanamente camminato nelle scarpe di chi abbiamo incrociato, ho soltanto camminato vicino a loro che camminavano.
Dopo Salinas, si sale a visitare una comunità a 4200 metri. Freddo. Pioggia. Freddo. Vento. Ancora più freddo. Boja che freddo. Ma i volti dei bambini all’asilo che ci guardavano non li scorderò tanto facilmente.
Torniamo a Quito. Arriva a cena Bepi Tonello con la moglie Teresa … insieme a padre Polo hanno dato vita a Salinas, e cambiato la vita di queste persone.
Da un paese sfruttato per ricavare il sale con un lavoro bestiale in cambio di un nulla, ad un paese che sta riuscendo a uscire dalla povertà attraverso il lavoro, l’organizzazione in cooperative. Il lavoro che diventa dignità e possibilità. Questa gente ha potuto comprare la terra dai padroni, con difficoltà ma senza violenza, perché violenza è sempre e solo violenza. Una comunità che ha saputo seminare il bene, non estirpare il male. E per l’ennesima volta ti si pone davanti la differenza tra vedere e capire. Abbiamo visto Salinas ma non l’avevamo capita. Bepi ce l’ha raccontata attraverso la sua storia. E Salinas non perde il suo volto duro, ma si apre ad una visone diversa. Sfoglio il libro di Salinas, le foto sono bellissime, i colori delle lane di alpaca, le donne che filano, i volti bellissimi dei bambini andini, con quelle mascelle rosse. Hanno ora un senso diverso, non riesco a guardarle senza provare un brivido di freddo e compassione, ma in questo sento che c´è un mio limite, perché quelle foto e quella gente raccolgono la forza, la dignità, la bellezza di uomini, donne e bambini che si sono conquistati la libertà e stanno camminando per questo.
E poi su verso Sua, verso Atacames. Per strade, palmeti e alberi di banane. E ancora palmeti, per chilometri e chilometri. L’incontro con padre Daniele che lavora nelle comunità "nel campo". Da noi si direbbe "in meso ae brecane". Ma parecchio in mezzo a tante brecane. Chilometri nella foresta, su strade sterrate di montagna, a volte impraticabili per mesi a causa delle piogge. La visita alla piccola comunità di Crisanto, spersa nella foresta, l´incontro con la catechista per decidere la data della prima comunione. E poi la celebrazione di una prima comunione nella comunità di Macará. Fango, tanto fango, peró la gente che arriva vestita con l´abito migliore. E ti trovi a condividere un momento di festa e a far parte di una messa spiegata in ogni suo gesto, perché la messa per noi è normalità, ma in certi posti, dove si può celebrare solo ogni 3 o 4 mesi, ricordarsi tutte le parti e il significato dei vari momenti non è scontato.
La messa di saluto a don Mauro e don Giampaolo che partono per Durán. Festa, tanta festa. Tanti canti a messa, si batte le mani e si ride a messa perché il canto è contagioso anche se non conosci le parole. E la gente che ti saluta e ti ringrazia perché sei amico del "padrecito" e ti abbraccia. Sorrisi, tanti sorrisi. Da una baracca esce una ragazza, saluta il padrecito e con un sorriso illumina la casa. Quale storia ci sia dietro quel sorriso non lo possiamo sapere, ma nonostante tutto non manca il sorriso.
Ti rendi conto che l’esperienza che stanno facendo qui don Giovanni, don Saverio, don Nicola, don Mauro, don Giampaolo, don Daniele e Luigina è qualcosa di grande.
Non è facile scrivere queste righe perché le immagini nella testa corrono più veloci della mano che scrive. Passare del tempo qui significa dare un volto, un colore, un profumo a ciò che leggi nelle mail e nel blog. Significa andare in chiesa in un altro continente, in un altro paese, con un’altra lingua e con una vita completamente differente da quella che viviamo ogni giorno. E significa andare in chiesa e sentirsi a casa, sentirsi parte di una comunità per quel breve momento in cui vieni accolto da sorrisi, saluti, strette di mano. Sentire che chiesa è casa.
Grazie a chi ci ha ospitato e grazie a Stefano e Giuseppina, meravigliosi compagni di viaggio.
¡Hasta luego Ecuador!
¡Hasta pronto Ecuador!
Marco e Silvia
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