Chiara Malesani

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“HOLA CLARITAAAA!!!”

È questo il saluto che mi dà il benvenuto ogni mattina, gridato a pieni polmoni da decine di bambini che mi corrono incontro travolgendomi con la loro incontenibile voglia di vivere.
Veramente il mio nome è Chiara, ma qui in Ecuador mi chiamano tutti Clarita.
Ho diciannove anni e vivo a Quito da due mesi e mezzo. Lavoro al centro infantile Miguelito e al doposcuola San Lucas, come volontaria del progetto Spondylus di ASA.
L’accoglienza più bella in questo Paese l’ho ricevuta proprio dai bambini.
Nessuno come loro ha la capacità di farmi sentire amata, cercata, voluta, esattamente per quello che sono. Molti di loro vivono situazioni di maltratto e di violenza in famiglia, che spesso sono la causa di improvvisi scatti di aggressività o di ritardi nel linguaggio.
Eppure proprio loro mi danno una gioia e una forza che non pensavo di poter trovare nella debolezza.
Un giorno mi è successo di arrivare al centro infantile stanca e di cattivo umore. Dopo meno di mezz’ora, senza neanche capire come, mi sono ritrovata a giocare insieme a loro con un’energia, un’allegria, una tenerezza che in quel momento mai avrei immaginato di avere.
I bambini, con la loro incredibile sete di attenzione e di amore, stanno risvegliando il meglio di me e mi stanno trasformando. A fine giornata mi accorgo che mi hanno restituito moltiplicato per cento l’affetto che gli ho dato.
Sono io ad aver bisogno di loro. Spero che, quando ad aprile tornerò in Italia, riuscirò a portare con me quello che sto imparando. Certo è più facile ed entusiasmante occuparsi dei bambini ecuatoriani piuttosto che accorgersi e prendersi cura delle persone in difficoltà che ci vivono affianco ogni giorno, in famiglia, al lavoro o all’università. Ma voglio imparare a considerare tutte le debolezze e le difficoltà che incontro, all’esterno, ma anche dentro di me, come una grazia e un’opportunità.
Da questa esperienza sto imparando ad osservare le cose da diversi punti di vista, a trovare il positivo in ciò che credevo fosse un problema, a relativizzare cose che consideravo fondamentali e a dare importanza a ciò che mi sembrava scontato.
A insegnarmi questo sono stati soprattutto gli incontri con ragazzi come Anahì, Nathy, Andrès, Genesis e Teresa.
Abbiamo tutti e sei la stessa età: diciannove anni. Anahì è sposata e ha un figlio di tre anni. Nathy lavora con me al centro infantile, ogni giorno, appena finisce di lavorare, corre all’università, torna a casa alle dieci di sera e spesso studia fino a mezzanotte. Anche Andrès vorrebbe studiare all’università, ma non può permetterselo: lui
passa la giornata facendo su e giù dagli autobus di Quito, dove vende caramelle a 5 centesimi. Genesis invece non prende mai l’autobus: per spostarsi usa la canoa. Vive nella comunità di San Victoriano, dentro la foresta Amazzonica, con la sua scimmietta Napo sempre appollaiata sulla spalla. Teresa, che vive nella comunità indigena di Nizag, a 2500 m di altitudine, non ha mai preso in braccio una scimmia, ma sa mungere le mucche, portare al pascolo le pecore, seminare la canna da zucchero, cucire al telaio e parlare il quichua.
Sei diciannovenni e sei vite diversissime: da quando siamo nati non abbiamo le stesse difficoltà, né le stesse opportunità, né le stesse aspettative per il futuro. Non posso fare a meno di continuare a chiedermi il perché e il senso di tutto questo… ma, al di là delle differenze, credo che siamo tutti accomunati dalla stessa voglia di vivere, dallo stesso bisogno di amore, dallo stesso desiderio di realizzare i nostri sogni.

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